Teorie del ciclo economico


3 Il primo dibattito sulle crisi

Le violente e drammatiche crisi del secondo decennio dell'ottocento hanno innescato un profondo e proficuo dibattito teorico sulla possibilità e le cause delle sovrapproduzioni generali.

Nonostante l'Inghilterra industrializzata avesse fatto esperienza di alcune crisi già nel diciassettesimo secolo, è solo con le prolungate e profonde crisi che seguirono le guerre napoleoniche (1815 e 1818-19) che il loro carattere casuale e accidentale venne messo seriamente in questione e che gli economisti si scoprirono obbligati a chiedersi se un ingorgo generale dei mercati (`glut') fosse o meno un fenomeno con radici nel modo di funzionamento dell'economia capitalistica. Questo è il contesto nel quale si assiste alla prima accesa schermaglia tra ortodossi ed eretici: i primi, sulla scorta della `legge di Say', affermavano che una crisi generale di sovrapproduzione era impossibile, e che i fenomeni cui stavano assistendo erano costituiti da sovrapproduzioni parziali, causate da sproporzioni tra diversi settori produttivi generate da eventi esterni o da errori di calcolo da parte dei produttori. I secondi negavano invece la validità della legge di Say, e affermavano che le crisi generali non solo sono possibili, ma che sono parte integrante dello sviluppo capitalistico.

Il dibattito, nato dalle critiche di Sismondi ( 1819 ) e Malthus ( 1820 ), si è sviluppato, in modo spesso assai confuso, per oltre un decennio, sopravvivendo ai suoi protagonisti principali -vale a dire, ai maggiori teorici dell'epoca.

3.1. La legge di Say

Nella prima edizione del suo Traité d'économie politique (1803), Jean-Baptiste Say scriveva: "[nello scambio] il denaro non svolge che un ruolo passeggero. Al termine degli scambi, risulta che i prodotti sono stati pagati con prodotti. Se perciò una nazione ha troppi prodotti di una specie, il mezzo per smaltirli consiste nell'acquistarne di un'altra". 1 Una dichiarazione analoga si trova qualche anno più tardi in Commerce Defended di James Mill (1808, capitolo 6). È poi fatta propria da David Ricardo , il massimo teorico dell'epoca, che nei suoi Principi dell'economia politica e della tassazione scrive: "Il signor Say ha peraltro mostrato, in modo molto soddisfacente, che non c'è quantità di capitale che non possa trovare impiego in un paese, perché la domanda è limitata solo dalla produzione. Nessuno produce se non in vista di consumare o di vendere, e nessuno vende se non ha intenzione di comperare qualche altra merce, che può essergli immediatamente utile o può contribuire alla produzione futura. Con la produzione, quindi, egli diventa necessariamente, o consumatore dei propri beni, o compratore e consumatore dei beni di qualche altra persona" ( Ricardo 1817 , capitolo 21).

A giudizio dei commentatori successivi, la `legge degli sbocchi' è formulata da Say in modo estremamente confuso, tanto che nel breve capitolo in cui è esposta (capitolo rimaneggiato più volte nelle cinque edizioni pubblicate mentre l'autore era in vita) ne sono state individuate fino ad otto varianti, a loro volta interpretate ed utilizzate in diversi modi dai commentatori contemporanei. 2 È dunque impossibile dare un'interpretazione univoca di questa legge sulla base dei testi, e anche solo distillare un contenuto minimo può essere pericoloso.

È comunque chiaro che la legge di Say ha a che fare con l'impossibilità di una sovrapproduzione generale. Il presupposto, chiarito in modo evidente da Ricardo, è che ciascuno produca con lo scopo di consumare, o di scambiare i propri prodotti con altri al fine di consumarli. In tal caso, la moneta non ha altra funzione che di intermediario negli scambi. In un sistema siffatto, l'idea stessa di una crisi generale non ha senso. La produzione si traduce in redditi per tutti coloro coinvolti nel processo produttivo: la produzione complessiva è necessariamente uguale al potere d'acquisto totale; questi redditi sono consumati, oppure risparmiati con lo scopo di effettuare subito un investimento (tanto Say come Ricardo e i ricardiani accettano il presupposto di Adam Smith , secondo cui unico scopo del risparmio è di assicurare risorse per l'investimento): in ogni caso, tutto il reddito è immediatamente speso, assicurando l'equilibrio sul mercato delle merci. 3

L'evidenza delle crisi ha naturalmente costretto Say e i suoi sostenitori a riconoscere che possono darsi degli squilibri. Il fenomeno, tuttavia, non consiste in una sovrapproduzione generale, ma in una sovrapproduzione parziale che riflette delle sproporzioni momentanee tra i vari mercati: nelle parole di Say, "certi prodotti sono sovrabbondanti in quanto altri sono venuti a mancare". Le cause di questo stato di cose sono da ricercare nei "disastri naturali o politici, nell'avidità o nell'imperizia del governo" ( Say 1826 , libro I capitolo 15), o nei "subitanei cambiamenti nei canali del commercio", dovuti ad esempio a guerre o nuove imposte ( Ricardo 1817 , capitolo19) che rendono difficile per gli imprenditori riconoscere correttamente i desideri degli acquirenti e adeguarsi ad essi.

Non appena questi disturbi vengono meno, l'ordine è ripristinato automaticamente. Scrive Say: "Quando questa causa di malattia politica cessa i mezzi di produzione si portano verso i settori in cui la produzione è rimasta arretrata; e proseguendo lungo quella via, essi favoriscono la produzione in tutti gli altri settori. Un genere di produzione raramente eccederebbe sugli altri, e i suoi prodotti raramente sarebbero deprezzati, se tutti fossero lasciati alla loro piena libertà."

Nella concezione di Say e di Ricardo, lo stato normale del sistema economico è dunque caratterizzato da un ordine che si manifesta nella forma di equilibrio sul mercato delle merci. Questo equilibrio può essere turbato solo da eventi esterni al buon funzionamento del sistema capitalistico di produzione, che danno luogo a sproporzioni settoriali che si mantengono solo fino a quando sono attive queste cause esogene; non appena queste cessano, si mettono in moto dei meccanismi (stabilizzatori, diremmo oggi) che tendono a riportare il sistema al suo stato normale.

3.2. La critica di Sismondi

Mentre Say e Ricardo erano convinti di aver provato che il mercato delle merci tende all'equilibrio, a Ginevra Simonde de Sismondi si preoccupava di un diversi tipo di equilibrio: la capacità del sistema capitalistico di ricreare, di anno in anno, i presupposti per la produzione su scala allargata, in modo che i bisogni dei consumatori e dei produttori siano contemporaneamente soddisfatti. 4 Già a partire dal 1803, in un'opera voluta come esegesi e diffusione del pensiero di Smith in Francia, Sismondi aveva proposto un modello aritmetico della crescita bilanciata, basato su precise relazioni tra le quantità prodotte e consumate nel corso di un anno e quelle disponibili nell'anno seguente. 5 Questo modello, seppure non privo di difficoltà analitiche (riguardanti in particolare la definizione di `reddito'), è stato poi ripreso e sviluppato, in modo meno formale, nei Nuovi principi di economia politica ( Sismondi 1819 ).

Sismondi formula nel modo seguente il problema delle condizioni per la riproduzione annua dei presupposti per la ripresa del processo produttivo: "La ricchezza nazionale, nella sua crescita, segue un movimento circolare; ogni effetto diventa a sua volta una causa, ogni fase di tale movimento è condizionata da quella precedente e condiziona quella successiva; l'ultima fase poi si riaggancia alla prima e così via. Il reddito nazionale deve regolare la spesa nazionale, quest'ultima deve assorbire nel fondo di consumo la produzione totale; il consumo assoluto determina una riproduzione uguale o superiore e da quest'ultima nasce il reddito. La ricchezza nazionale seguita ad accrescersi e lo stato continua a prosperare se un consumo immediato e totale dà luogo, ogni volta, a una riproduzione maggiore e se le altre parti della ricchezza, che sono fra di loro in rapporto reciproco, crescono con un andamento uguale e graduale." 6

Se queste condizioni sono soddisfatte, cioè se "il reddito dell'anno precedente [paga] per la produzione in corso", "il cerchio della ricchezza può allargarsi e diventare una spirale". Ma una tale condizione non è stabile: "Basta che l'equilibrio si rompa perché si determini una situazione di disagio nello stato. La produzione può diminuire quando l'abitudine all'ozio si diffonde nelle classi lavoratrici; il capitale può diminuire quando la prodigalità e il lusso diventano di moda; il consumo, infine, può diminuire per cause di miseria estranee alla diminuzione del lavoro; ma poiché la diminuzione del consumo non consentiva una riproduzione futura, di conseguenza diminuirà anche il salario". Quest'ultima è la causa di crisi sulla quale Sismondi si sofferma maggiormente. La divisione del lavoro e il progresso tecnologico aumentano la produttività del lavoro diminuendone il prezzo (il salario) e aumentando nel contempo la disponibilità di merci sul mercato. Poiché il potere d'acquisto dei lavoratori diminuisce (Sismondi assume implicitamente che il prezzo delle merci non cali in proporzione ai salari), lo smercio è possibile solamente se la produzione consiste in beni di lusso acquistati dai "ricchi oziosi": cosa non priva di difficoltà, in quanto richiede spostamenti di capitali e di uomini, e che del resto distoglie risorse alla crescita del capitale dalla quale nasce il reddito. Ciò aumenta il divario tra ricchi e poveri, e genera quei problemi di realizzazione che si traducono in una produzione di merci eccessiva rispetto alla capacità di consumo della società ( Sismondi 1919 , libro II capitolo 3).

La crescita equilibrata non è tuttavia eccessivamente instabile, così che non risulta uno stato impossibile da raggiungere: "Quando la nazione imbocca una buona strada, quando cioè ha un governo che la conduce sulla linea dei suoi interessi naturali, 7 l'aumento del capitale, del reddito e del consumo procedono per lo più da soli e di pari passo, senza che vi sia bisogno d'intervenire; e, anche se una di queste parti della ricchezza supera momentaneamente le altre, il commercio estero è quasi sempre pronto a ristabilire l'equilibrio" ( Sismondi 1919 , Libro II capitolo 6).

Al contrario di Say e Ricardo, per i quali la crisi è un fatto momentaneo che consiste in sproporzioni tra diversi settori produttivi causati da fenomeni essenzialmente esogeni, per Sismondi la crisi è un fenomeno generale connaturato allo sviluppo stesso della produzione capitalistica, che non può essere evitato se non in forza di un appropriato intervento del governo. Già nella prima schermaglia, dunque, nonostante le incertezze analitiche dei protagonisti e i diversi piani teorici sui quali si situano, il problema della causa delle crisi si pone in termini di perturbazioni dell'equilibrio e della capacità o meno del sistema di mettere in moto dei meccanismi che riconducano o allo smaltimento di tutte le merci o alla riproduzione del processo produttivo.

Questo articolo è apparso in Azione (settimanale di Lugano) il 3 aprile 2002. © Daniele Besomi


1. Say 1803 , libro I capitolo 15.

2. Ad esempio Schumpeter 1954 , capitolo 6 § 4, e Baumol 1977 .

3. "Tutto ciò che un individuo risparmia dal suo reddito lo aggiunge al suo capitale impiegandolo egli stesso per mantenere un numero addizionale di lavoratori produttivi, oppure mettendolo in grado di far ciò qualche altra persona, prestandoglielo per un interesse, cioè per una parte dei suoi profitti. ... Ciò che ogni anno si risparmia viene regolarmente consumato come ciò che ogni anno viene speso, e per di più quasi nello stesso tempo; ma viene consumato da un diverso gruppo di persone" ( Smith 1776 , trad. it. pp. 332-33).

4. Su questo aspetto ha insistito in particolare Rosa Luxemburg ( 1912 , capitolo 10); Sowell specifica che Sismondi ha una teoria della produzione aggregata di equilibrio ( 1972a e 1972b , capitolo 2).

5. Sismondi 1803 ; Questo aspetto è discusso in Barucci 1966 e Sowell 1972a .

6. Sismondi 1819 (1824), Libro II capitolo 6.

7. Sismondi vedeva come `naturale' lo stato di cose in cui la produzione è destinata alla soddisfazione dei bisogni; l'oposizione è pertanto tra valore d'uso e valore di scambio, il primo dominante nelle economie pre-capitaliste e il secondo nel sistema capitalistico. Per una discussione si veda Barucci 1975 , § 13 per la nozione di `naturale' e p. xxix sui compito dello stato.


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