A inizio Novecento le teorie delle crisi sono definitivamente sostituite dalle teorie del ciclo, in un clima intellettuale rinnovato e in un nuovo contesto analitico.
Nella seconda metà dell'Ottocento si è riconosciuto nella periodicità e regolarità delle crisi un fenomeno nuovo, che richiedeva pertanto un nuovo tipo di spiegazione (vedi capitolo Un nuovo fenomeno: dalle crisi ai cicli ). Corrispondentemente le teorie delle crisi hanno fatto posto a concezioni teoriche che evidenziavano questi aspetti: le teorie del ciclo economico. Questo processo si è concluso nei primi anni del Novecento, tanto che alla vigilia della prima guerra mondiale cominciano ad apparire le prime riflessioni sul cambiamento avvenuto all'interno della disciplina.
Riflessioni sulla natura del fenomeno ciclico simili a quelle sviluppate dai pionieri (vedi capitolo Un nuovo fenomeno: dalle crisi ai cicli ) sono stati ripresi pochi decenni più tardi dai sistematizzatori, quando il ciclo era un fenomeno ormai riconosciuto e aveva sostituito le crisi nell'attenzione degli economisti. 1 Wesley Mitchell, in particolare, riassumeva come segue il clima intellettuale in questa disciplina alla vigilia della prima guerra mondiale:
Continuano a sussistere varie divergenze d'opinione tra specialisti nel campo delle crisi; ma negli anni recenti si è raggiunto un sostanziale accordo su due punti di fondamentale importanza.
Le crisi non sono più trattate come improvvise catastrofi che interrompono il corso `normale' degli affari, come episodi che possono essere compresi senza indagare cosa sia successo negli anni trascorsi tra l'uno e il successivo. Al contrario, la crisi è considerata come la più drammatica e breve delle tre fasi del ciclo economico --prosperità, crisi e depressione. La discussione moderna tenta di mostrare perché una crisi è seguita da una depressione e la depressione da una prosperità con il medesimo interesse con il quale vuole mostrare perché la prosperità è seguita da una crisi. In altre parole, la teoria delle crisi è evoluta in una teoria del ciclo economico.
Questa percezione più ampia del problema ha screditato l'approccio che vedeva le crisi come il risultato di condizioni anormali che inducono l'industria e il commercio ad abbandonare la via maestra e che annebbiano temporaneamente la capacità di giudizio degli uomini d'affari e degli investitori, o come la conseguenza di legislazioni non appropriate, pratiche commerciali malsane, organizzazioni bancarie imperfette e così via. 2 Man mano che le fluttuazioni economiche hanno compiuto il loro ciclo decennio dopo decennio in tutte le nazioni con un avanzato grado di organizzazione industriale e commerciale, l'idea che ogni crisi fosse dovuta ad una propria causa particolare è diventata sempre più difficilmente sostenibile. Al contrario, le spiegazioni oggi meglio accettate attribuiscono il ricorrere delle crisi dopo periodi di prosperità a qualche caratteristica intrinseca all'organizzazione o all'attività economica. I complessi processi che costituiscono il mondo degli affari sono analizzati per scoprire le ragioni per le quali comportano inevitabilmente transizioni da periodi buoni a periodi non buoni, e da periodi non buoni a periodi buoni. L'influenza di condizioni particolari è naturalmente riconosciuta, ma è interpretata come un fattore che complica il processo anziché come causa principale delle crisi ( Mitchell 1913 , pp. 5-6).
La descrizione di Mitchell risente naturalmente del fatto che egli era parte integrante del processo di transizione che stava esponendo, e che ha contribuito a consolidare (vedi capitolo Wesley Mitchell: Il ciclo, un fenomeno simmetrico ). Esso è infatti presentato come un progresso unilaterale da una concezione parziale a una percezione più generale del fenomeno, cui corrisponde la sostituzione di una serie di spiegazioni ad hoc con un meccanismo inerente l'attività o l'organizzazione economica; le teorie del ciclo, tra cui quella proposta dallo stesso Mitchell, sono dunque presentate come lo sbocco naturale dell'approccio precedente, capaci di integrare aspetti che questo non poteva neppure contemplare, e pertanto ad esso superiori. Con questo atto le teorie delle crisi sono pronte per essere definitivamente liquidate, e il fenomeno che esse descrivevano è ricondotto ad una fase di un nuovo fenomeno, più complesso, che comprende il primo solo come momento particolare. Poiché Mitchell ambiva a porre alcuni punti fermi nella teoria del ciclo, nella sua ricostruzione la distinzione tra interesse per le crisi ed interesse per il ciclo appare più netta di quanto non fosse in realtà, dal momento che --come abbiamo visto nel capitolo Il ricorrere delle crisi -- il carattere periodico delle crisi era riconosciuto (anche se in principio in modo piuttosto sporadico) da diversi decenni.
La caratterizzazione di Mitchell, comunque, coglie alcuni elementi importanti della transizione in atto. Il principale consiste nell'interpretazione delle crisi come fasi del ciclo. L'evoluzione in questo senso è stata graduale: se osserviamo la descrizione delle fasi proposta da Mills (vedi capitolo Un nuovo fenomeno: dalle crisi ai cicli ) osserviamo come la crisi non sia esplicitamente elencata tra le fasi del ciclo ma sia citata a parte come suo punto di partenza e di arrivo. Analogamente, Juglar aveva riconosciuto tre fasi del ciclo --la ripresa, la crisi, e la liquidazione--, che si caratterizzano per la loro asimmetria, centrata attorno alla crisi. Ciò testimonia del fatto che in questi primi scritti sul ciclo la crisi continua a svolgere un ruolo privilegiato negli apparati teorici: il ciclo è dapprima inteso come ricorrere più o meno regolare delle crisi, solo in seguito la crisi diventa una fase del ciclo come le altre, per poi scomparire quasi definitivamente in una concezione meccanicistica che descrive il ciclo per mezzo di funzioni matematiche che oscillano in modo perfettamente simmetrico. Il passo di ridurre le crisi a fasi del ciclo è stato comunque compiuto, più o meno velocemente, dalla maggior parte dei teorici.
Va tuttavia sottolineato che questa scelta non è l'unica logicamente concepibile, e alcuni autori hanno infatti seguito altre vie. È infatti possibile --come ha fatto ad esempio Marx: vedi capitolo Marx: la crisi come risoluzione delle contraddizioni del capitalismo -- tener conto del ricorrere delle crisi anche in altri termini, in particolare considerando il ciclo come ciclo di crisi: si tratta di un'interpretazione che mantiene l'enfasi su questo particolare momento, cui è attribuito un ruolo specifico nel processo di accumulazione del capitale, tanto da renderne indispensabile il ritorno periodico. Come osserva giustamente Schumpeter a proposito della suddivisione del ciclo in fasi, la scelta tra diverse interpretazioni non risulta unicamente da un espediente descrittivo, ma riflette il riconoscimento di diversi processi in corso nei quali sono in gioco diverse forze che agiscono in diverse direzioni. Non si tratta dunque di una scelta arbitraria, ma di una distinzione analitica, 3 che in questo caso traduce l'enfasi sulla periodicità, sulla regolarità e sulla ripetitività del ciclo piuttosto che sulla violenza e la rottura associate alle crisi. L'interpretazione di Mitchell codifica dunque una specifica interpretazione teorica del fenomeno, che seppure seguita dalla vasta maggioranza degli studiosi non è necessariamente l'unica ammissibile né la più feconda.
Un secondo elemento evidenziato da Mitchell riguarda l'approccio da seguire nella costruzione di una teoria del ciclo. La prescrizione (presentata sotto forma di descrizione analitica) concerne il succedersi delle fasi, ciascuna delle quali deve portare alla successiva. Ciò non solo stabilisce che le fasi devono succedersi in un ordine ciclico, ma anche che le cause di una fase (o, quantomeno, le sue premesse) devono trovarsi tra le conseguenze della fase precedente. 4 In questo modo si prepara la strada alla chiusura del sistema, poiché il numero limitato di `forze' che determina il movimento economico in ciascuna fase contribuisce altresì a determinare le condizioni per lo sviluppo nella fase successiva, e così via fino al ritorno alle determinanti della fase da cui si sono prese le mosse. In tale concezione anche la causalità diventa circolare, diventando così una nozione "estremamente sfuggente e ambigua": 5 ogni variabile è causa, e allo stesso tempo effetto, di ogni altra, e dunque anche di sé stessa in un tempo successivo. Se la relazione tra le varie fasi è il punto di partenza di questo ragionamento, il suo punto di arrivo è la perdita di senso della nozione stessa di fase, che diventa un semplice ausilio alla descrizione costruito in base ad una distinzione magari di buon senso ma puramente arbitraria. 6 Per il compimento di questo processo basterà attendere due decenni dopo lo scritto di Mitchell: con le formulazioni matematiche del ciclo in termini di equazioni funzionali, 7 ogni stato del sistema (definito dai valori di una variabile e dei suoi momenti in un istante temporale o in un periodo, a seconda della struttura formale delle equazioni) `genera' lo stato successivo. In questa concezione lo `stato' di un sistema che evolve fluttuando a partire da una condizione iniziale e alcune relazioni funzionali tra variabili sostituisce la `fase' nel suo ruolo di generatore del ciclo, ultimando così anche il processo di perdita di specificità della crisi come fase del ciclo.
La questione del succedersi e generarsi reciproco delle fasi del ciclo solleva anche il problema della endogenità delle fluttuazioni economiche: se ogni fase è generata dalla precedente, la spiegazione del ciclo non abbisogna di elementi esterni al funzionamento del sistema economico. 8 Come già in precedenza avevano fatto Juglar, Mills e Jevons, anche Mitchell ammette l'influenza di "condizioni particolari", che sono tuttavia chiamate a spiegare le contingenze di ogni specifico ciclo piuttosto che a fornire una causa generale del fenomeno. Tuttavia Mitchell si spinge ad affermare con forza che l'approccio in termini del ciclo ha reso difficilmente sostenibile (e, anzi, ha screditato) la tesi che le crisi abbiano cause speciali come malfunzionamenti nel sistema legislativo o bancario, condizioni anormali, valutazioni errate da parte degli imprenditori, e così via. Non c'è dubbio che qui Mitchell avrebbe dovuto essere più cauto: tanto la teoria delle macchie solari di Jevons, quanto le spiegazioni in termini di fattori psicologici suggerite da Mill, Langton e Mills mostrano come fosse possibile concepire fenomeni ciclici regolari causati, in ultima analisi, da fattori esogeni (seppure mantenuti e amplificati dal funzionamento proprio del sistema economico) o da reazioni errate degli operatori. Come vedremo nei prossimi capitoli, la storia successiva delle teorie del ciclo abbonda di esempi di teorie del ciclo centrate proprio sui fattori che Mitchell riteneva screditati. Al contrario, alcune teorie delle crisi fanno riferimento a fattori essenzialmente endogeni, anche se non in tutti i casi l'analisi di questi autori incorporava il ripetersi di questi eventi. Ciò suggerisce che la distinzione di Mitchell non sappia rendere conto di quello che, logicamente, costituisce la vera linea discriminante tra teorie esogene ed endogene: l'internalizzazione della possibilità che il sistema si allontani dall'equilibrio a causa delle proprie regole di funzionamento, in modo permanente ma non eccessivo e con la tendenza ad invertire la direzione del movimento di fuga oltre un certo limite.
1. Rimanevano naturalmente delle resistenze. Osservando come una conseguenza dell'interpretazione delle crisi come evento evento anomalo sia stata di marginalizzare la discussione del fenomeno lontano dal corpo principale della teoria economica, Mitchell nota come "As late as 1898, Böhm-Bawerk thought it necessary to argue that a theory of crises `should always form the last, or next-to-the-last, chapter in a system of economic theory, written or unwritten' ( Mitchell 1927 , pp. 451-52, con riferimento a Böhm-Bawerk 1898 , p. 112).
2. In proposito, qualche anno più tardi Mitchell ha acutamente osservato come la trattazione delle crisi come fenomeni `anormali' da spiegare come momenti di irrazionalità comportasse la standardizzazione del comportamento irrazionale: ad esempio, "the observation that good times beget ver-confidence among investors converted [a] lapse from rationality into a rule of economic behavior, and afforded a simple theory of crises" ( Mitchell 1927a , p. 835).
3. Schumpeter 1939 , pp. 155-56. Il passaggio è citato in nota Non tutti, naturalmente, sono pronti a spingersi fino a questo punto. Schumpeter, ad esempio, sottolinea --con riferimento alla suddivisione del ciclo in due, tre, quattro o cinque fasi-- che questa operazione "is not a matter of descriptive convenience. Each pahse is a distinct composite phenomenon, not only distinguishable by a characteristic set of features, but also explainable in terms of the different `forces' which dominate it and produce those features". Egli inoltre ritiene che questa non sia una peculiarità del proprio approccio: "For practically all students, the two, three, four or five phases which are most frequently distinguished, mean different processes and different sets of characteristics, and the distinction embodies a good part of the results of their analysis. It is therefore not quite correct to speak of arbitrariness in the matter" (Schumpeter 1939, pp. 155-56). a questo capitolo.
4. Su questo aspetto dell'approccio di Mitchell si veda la sezione Statistiche, annali, e teorie del ciclo ; sulla nozione di causa, in particolare, si veda la nota Mitchell 1913, rispampa 1941, p. 149; vedi anche p. ix. Più tardi al termine `teoria', Mitchell preferirà l'espressione "systematic account of cyclical fluctuations", sempre intesa come "analytic description of the processes by which a given phase of business activity presently turns into another phase" (Mitchell 1930, ristampa 1937, p. 100). al capitolo Wesley Mitchell: Il ciclo, un fenomeno simmetrico .
5. Samuelson 1947 , nota 11 al capitolo XI (trad. it. p. 442).
6. Non tutti, naturalmente, sono pronti a spingersi fino a questo punto. Schumpeter, ad esempio, sottolinea --con riferimento alla suddivisione del ciclo in due, tre, quattro o cinque fasi-- che questa operazione "is not a matter of descriptive convenience. Each pahse is a distinct composite phenomenon, not only distinguishable by a characteristic set of features, but also explainable in terms of the different `forces' which dominate it and produce those features". Egli inoltre ritiene che questa non sia una peculiarità del proprio approccio: "For practically all students, the two, three, four or five phases which are most frequently distinguished, mean different processes and different sets of characteristics, and the distinction embodies a good part of the results of their analysis. It is therefore not quite correct to speak of arbitrariness in the matter" ( Schumpeter 1939 , pp. 155-56).
7. La codifica dell'approccio dinamico-formale al ciclo si deve a Ragnar Frisch (1933, 1936 ), come vedremo in un capitolo successivo.
8. Osservando che Tooke e Overstone avevano compiuto un importante passo avanti riguardo all'analisi causale, Schumpeter definisce la loro teoria come `endogena' per il fatto che "both authors tried to show how each phase of the cyclical process is induced by the conditions prevailing in the preceding one" ( Schumpeter 1954 , p. 745).